Tesina Concezione spazio-tempo nel Novecento per la maturità

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view post Posted on 26/3/2009, 18:17
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Tesina sulla Concezione spazio-tempo nel Novecento per esame di maturità



Potete scaricare la versione completa della tesina qui

La nuova concezione dello spazio-tempo del Novecento



L’interesse per questo tema nasce dalla constatazione di come il tempo e lo spazio abbiano una oggettività inconfutabile e allo stesso tempo siano soggetti a infinite interpretazioni individuali in ogni campo: scientifico, filosofico, letterario ed artistico.

Specialmente nel Novecento si fa vivo il dualismo interpretativo che permette di considerare tempo e spazio in modo univoco, oggettivo, o del tutto personale, contingente.

Rispetto alla speculazione filosofica dei secoli passati, la reazione antipositivistica bergsoniana presenta il tempo sotto l’aspetto della durata e della dimensione coscienziale, in una rilettura soggettiva dell’agostiniano “modo di durare della cosa creata”.

La nuova concezione della fisica moderna, con la teoria della relatività formulata da Einstein e dai suoi epigoni, considera il tempo come variabile connessa allo spazio. Sia che si presenti come dimensione della coscienza, sia come variabile relativa allo spazio, il tempo acquista una indeterminatezza che lo scrittore o l’artista colgono in chiave soggettiva, mostrando il fluire del tempo come “vissuto” psicologico dei propri personaggi, come sequenza non cronologica, ma associativa, in chiave psicanalitica, come punto di domanda a cui cercare un significato.

Su tale complessa problematica si basa la tecnica narrativa dello Stream of Consciousness . Realizzata in alcune opere di Joyce, come Ulysses o Finnegan’s wake, e di Virginia Woolf, come To the lighthouse, essa consiste nel libero accostamento di parole e di immagini, di impressioni e di ricordi, così come essi emergono dal nostro inconscio, senza successione cronologica né tantomeno logica: è una traduzione immediata in parole del nostro pensiero non razionalizzato. Tradizionale nella critica letteraria è l’accostamento fatto con Proust, che si ispira dichiaratamente ad una matrice bergsoniana più che freudiana, e con Italo Svevo della Coscienza di Zeno, che tuttavia non usa la tecnica come tale, perché utilizza una scrittura sintatticamente logica e razionalizzata, per esprimere però lo stesso flusso acronico di memorie, concentrate su un tema centrale che le suscita. Nell’Ulisse Joyce si muove da una prospettiva eminentemente soggettiva che sostanzialmente tende ad abbattere le distinzioni tra mondo interno e mondo esterno e ambisce ad una scrittura capace di una rappresentazione integrale dei diversi strati della coscienza. E qui, come nelle opere di Virginia Woolf, la narrazione è chiusa dentro la prospettiva del monologo interiore, ultima tappa del processo di soggettivizzazione del romanzo e quasi approdo alla dissoluzione della sua struttura tradizionale, in quanto vicende e personaggi sono del tutto secondari al fluire vario della voce del soggetto. L’eminenza di questa prospettiva porta ad una concezione del tutto soggettiva del tempo e della dinamica delle vicende: questi sono rappresentati a seconda del ritmo di percezione e interesse interno, per cui procedono in apparente disordine e fuori da una successione cronologica. Per meglio comprendere lo stretto rapporto spazio-tempo è necessario analizzare la nuova concezione di Bergson: egli, nel suo Essai sur les données immédiates de la conscience, muove dalla scoperta della consapevolezza di un’irriducibilità tra qualità e quantità e, conseguentemente, tra vita esteriore ed interiore. Ciò che è esterno – ed è questo che costituisce l’oggetto proprio della scienza – si distingue per differenze quantitative. Lo spazio esprime bene questa esternità di un oggetto rispetto ad un altro. Ciò che invece fa parte della coscienza, pur essendo molteplice e diverso, non è esterno in questo stesso senso. Ciò che rispetta questa molteplicità senza ridurla a esternità spaziale è il tempo. Non tuttavia quale lo presenta la scienza (misura della concomitanza di due mobili in due spazi), ma un tempo che sia durata reale, che consenta d’intendere istanti successivi come qualitativamente diversi, pur mantenendone la reciproca compenetrazione e la perenne capacità creativa. Molteplicità qualitativa, compenetrazione reciproca, perenne creatività sono perciò le caratteristiche del tempo come durata reale. Esse si oppongono alla concezione spazializzatrice del tempo, in cui ci troviamo di fronte a esternità quantitativa, reciproca indifferenza, ripetizione dell’identico e reversibilità del fenomeno. Proust si riferisce esplicitamente al concetto di durata e di dimensione coscienziale bergsoniano: egli si rifà al recupero della memoria del passato, suscitato da associazione di idee in non-successione cronologica., mentre Svevo si attiene ad un linguaggio narrativo più tradizionale, recuperando, però, le memorie di Zeno in ordine non cronologico ma tematico (il che per altro è già una razionalizzazione), con riferimento alla tecnica psicanalitica associazionistica freudiana. L’eliminazione dal dominio della fisica e, per riflesso, da quello più generale della filosofia , dei concetti di uno spazio e di un tempo assoluti conseguente la teoria della relatività ha costituito una vera rivoluzione. Secondo Newton i fatti si svolgono in un quadro immutabile costituito da uno spazio e un tempo assoluti. Einstein capovolge letteralmente questo punto di vista: secondo la sua teoria non ha senso parlare di spazio e di tempo se non in relazione ai fenomeni che vi si svolgono. È il principio di invarianza della velocità della luce, che insieme al principio della relatività è il postulato fondamentale della teoria della relatività ristretta. In arte, i temi fondamentali di Magritte sono la sua ossessiva ricerca delle radici nel passato (simbologia dell’albero e della casa: L’impero della luce, La voce del sangue) e la negazione della normale successione cronologica del tempo (compresenza del giorno e della notte nella stessa scena). Invece per De Chirico il tempo resta un enigma insoluto: partendo dalla concezione psicanalitica di un tempo che affiora dall’inconscio senza successione, ma in base al principio di associazione, egli coglie passato, presente e futuro come compresenti alla coscienza e razionalmente non distinguibili.

Italiano




Italo Svevo



Svevo si accinse nel 1919 alla stesura del suo capolavoro, La coscienza di Zeno, che portò a termine nel 1922 e pubblicò l’anno successivo. Il romanzo è l’autobiografia di un ricco commerciante triestino, Zeno Cosini, che, condannato dal testamento paterno a vivere di rendita sotto la tutela di un amministratore, trascorre la vita in uno stato di perenne irresponsabilità, unicamente impegnato ad analizzare la sua malattia e a studiarne i sintomi, giudicando retrospettivamente, in termini negativi, la cura psicanalitica che gli era stata proposta da un medico. Più che la storia di una malattia, La coscienza di Zeno è pertanto la storia del rifiuto della guarigione: il nesso salute-malattia è svolto in modo da affermare l’ambivalenza perfetta dei due termini, per cui non è possibile al protagonista raccontare la propria malattia senza, nel contempo, raccontare l’ “atroce salute” degli altri, ossia il conformismo sociale. In altri termini, non solo il singolo individuo è malato, ma la stessa vita è una “malattia della materia”, un mondo caotico, in preda alla follia autodistruttiva della guerra, preludio a una “catastrofe inaudita”, prodotta dagli “ordigni” costruiti dall’uomo. E’ dunque vano qualsiasi sforzo di guarigione, perché nessuno può sottrarsi alla nevrosi prodotta dalla civiltà del denaro e del possesso. Solo un’ “esplosione enorme” potrà salvarci definitivamente dalla paura della malattia: sarà forse la morte cosmica, intravista dallo scrittore, nel suo radicale pessimismo, come lo sbocco inevitabile di una civiltà tecnologica che costruisce macchine sempre più perfette; ma potrà essere anche la nascita di un mondo nuovo, prefigurato dagli “inetti” che, a differenza dei “santi”, irrimediabilmente contagiati da uno squallido presente, si sono mantenuti disponibili per progettare l’uomo del futuro. La tecnica narrativa, fondata sul “monologo interiore”, non ha nulla da spartire con il naturalismo: il romanzo oggettivo è aggredito da una disposizione analitica che rallenta il flusso del tempo, sottoponendo il protagonista ad un minuzioso scandaglio che ne mette a nudo la nevrosi, la tendenza all’autoinganno. Svevo abbandona il modulo ottocentesco, ancora di matrice naturalistica, del romanzo narrato da una voce anonima ed esterna al piano della vicenda, con ampie focalizzazioni interne ai personaggi, e adotta soluzioni più nuove. Per gran parte, La coscienza di Zeno è costituita da un memoriale, o confessione autobiografica, che il protagonista Zeno Cosini scrive su invito del suo psicanalista, il dottor S., a scopo terapeutico, come preludio che dovrebbe agevolare la cura vera e propria. E lo scrittore finge che il manoscritto di Zeno venga pubblicato dal dottor S. stesso, per vendicarsi del paziente, che si è sottratto alla cura frodando al medico il frutto dell’analisi (tutto ciò viene spiegato dal dottore in una prefazione, con cui si apre il libro). Al testo del memoriale si aggiunge infine una sorta di diario di Zeno, in cui questi spiega il suo abbandono della terapia e si dichiara sicuro della propria guarigione in coincidenza con i successi commerciali ottenuti durante la guerra con fortunate speculazioni. Il romanzo è dunque narrato dal protagonista stesso, dietro la finzione narrativa dell’autobiografia e del diario, pertanto ha un impianto autodiegetico. Nuovo e originale, nell’impianto narrativo, è anche il particolare trattamento del tempo, quello che Svevo chiama “tempo misto”. Il racconto, nonostante l’impostazione autobiografica, non presenta gli eventi nella loro successione cronologica lineare, inseriti in un tempo oggettivo, come nei romanzi ottocenteschi in cui il protagonista racconta la propria vita (si pensi al David Copperfield di Dickens o alle Confessioni di un Italiano di Nievo), ma in un tempo tutto soggettivo, che mescola piani e distanze, in cui il passato (il tempo del vissuto) riaffiora continuamente e si intreccia con infiniti fili al presente (il tempo del racconto), in un movimento incessante, in quanto resta presente nella coscienza del personaggio narrante. Di qui la struttura particolare del racconto, che non è lineare, progressiva, ma si spezza i tanti momenti distinti. La ricostruzione del proprio passato operata da Zeno si raggruppa intorno ad alcuni temi fondamentali, a ciascuno dei quali è dedicato un capitolo, talora assai ampio. Eventi contemporanei possono così essere distribuiti in più capitoli successivi, poiché si riferiscono a nuclei tematici diversi, e, inversamente, singoli capitoli, dedicati ad un particolare tema, possono abbracciare ampi segmenti della vita di Zeno. La narrazione va continuamente aventi e indietro nel tempo, seguendo la memoria del protagonista, che si sforza, per obbedire allo psicanalista, di ricostruire il proprio passato. Dopo la prefazione del dottor S. ed un preambolo in cui Zeno racconta i propri tentativi di risalire alla prima infanzia, gli argomenti dei vari capitoli sono: il vizio del fumo e i vani sforzi per liberarsene, la morte del padre, la storia del proprio matrimonio, il rapporto con la moglie e la giovane amante, la storia dell’associazione commerciale con il cognato Guido Speier; alla fine si colloca il capitolo Psico-analisi, in cui Zeno sfoga il proprio livore contro lo psicanalista e racconta la propria presunta guarigione. Il narratore della Coscienza, l’“inetto”, nevrotico, malato immaginario Zeno, è chiaramente un narratore inattendibile, di cui non ci si può fidare. Lo denuncia subito, sulla soglia stessa del libro, la prefazione del dottor S., che insiste sulle “tante verità e bugie” accumulate nel memoriale. L’autobiografia in esso contenuta è tutta un gigantesco tentativo di autogiustificazione di Zeno, che vuole dimostrarsi innocente da ogni colpa nei rapporti col padre, con la moglie, con l’amante, con il rivale Guido: in realtà traspaiono ad ogni pagina i suoi impulsi reali, che sono regolarmente ostili ed aggressivi, addirittura omicidi. Ma non si tratta di menzogne intenzionali: sono autoinganni determinati da processi profondi ed inconsapevoli, con i quali Zeno cerca di tacitare i sensi di colpa che tormentano il suo inconscio. L’agire di Zeno è sempre manifestatamente il prodotto di impulsi inconsci. Si pensi solo alla precipitosa domanda di matrimonio rivolta alla brutta Augusta dopo il rifiuto della bella Ada e di Alberta: essa non è certo un fatto accidentale, in realtà inconsciamente Zeno desiderava proprio la donna “materna”, e l’amore impossibile per Ada era un ostacolo che egli senza saperlo frapponeva al proprio desiderio. Per tutto il romanzo ogni gesto, ogni affermazione di Zeno, sia dello Zeno personaggio che agisce nel racconto, sia dello Zeno che narra a distanza di anni, rivela in trasparenza un groviglio complesso di motivazioni ambigue, sempre diverse o addirittura opposte rispetto a quelle dichiarate consapevolmente. Percui la “coscienza” di Zeno appare in primo luogo come una “cattiva coscienza”, una coscienza falsa, come quella degli eroi dei romanzi precedenti. La realtà oggettiva del fatti, che si intravede dietro le mistificazioni dello Zeno narratore e personaggio, si incarica spesso di farci dubitare delle motivazioni da lui adottate, per cui Zeno appare avvolto da un alone di ironia “oggettiva” al pari del protagonista di Senilità. Però la Coscienza di Zeno non è soltanto un’implacabile operazione di smascheramento di una falsa coscienza e dei suoi autoinganni come era Senilità. Nei venticinque anni che separano i due romanzi si è verificato in Svevo un profondo mutamento di prospettive, o, se si preferisce, un sostanziale arricchimento. A differenza di Emilio Brentani, protagonista di Senilità, Zeno non è solo oggetto di critica, ma anche soggetto. Non vi è solo l’ironia oggettiva che pesa su Zeno: il romanzo è anche percorso dal distacco ironico con cui Zeno guarda il mondo che lo circonda. La diversità di Zeno, la sua malattia, funziona da strumento straniante nei confronti dei cosiddetti sani e normali, il padre, il suocero, la moglie, Ada, Guido e tutto gli altri borghesi che si affollano sullo sfondo della vicenda. La malattia che impedisce a Zeno di coincidere interamente con la sua parte di borghese, porta alla luce l’inconsistenza della pretesa sanità degli altri, che in quella parte vivono perfettamente soddisfatti, incrollabili nelle loro certezze. Zeno, nella sua imperfezione di inetto, è inquieto e disponibile alle trasformazioni, a sperimentare le più varie forme dell’esistenza, ad esplorarne l’affascinante originalità (“la vita non è né brutta né bella, ma è originale”), mentre i sani sono cristallizzati in una forma rigida immutabile. In Zeno non vi è un deliberato, consapevole atteggiamento critico verso il mondo che lo circonda, una coscienza più lucida. In lui, anzi, vi è un disperato bisogno di salute, cioè di normalità, di integrazione nel contesto borghese: vorrebbe essere buon padre di famiglia, attivo ed abile uomo d’affari. Però, contro ogni sua intenzione, non riesce mai a coincidere veramente con quella forma compiuta e definitiva di uomo (neanche nel finale, nonostante il successo negli affari e le sue pretese di essere guarito, che non sono che un’ennesima mistificazione). Perciò il suo sguardo di irriducibile estraneo corrode quel mondo, ne mina alle basi le certezze indiscusse, mai sottoposte dai suoi rappresentanti al dubbio critico. Zeno finisce in tal modo per scoprire che la salute atroce degli altri è anch’essa malattia, la vera malattia. La visione dell’inetto mette in crisi, scovolge le nozioni contrapposte e gerarchicamente ordinate di salute e malattia, di forza e debolezza. Ma lo sguardo di Zeno distrugge le gerarchie, fa divenire tutto incerto e ambiguo, converte la salute in malattia. Il mutamento di impianto narrativo della Coscienza, il fatto che sia il protagonista stesso a narrare e non un’impersonale voce fuori campo, non può apparire una soluzione puramente tecnica e accidentale, ma anzi risulta una scelta in certo modo obbligata e densa di significato. Poiché Zeno non è più un eroe del tutto negativo, ma possiede una fisionomia più aperta e problematica, anzi detiene persino una forma di privilegio, in quanto è un essere mobile e disponibile in opposizione ad un mondo immobile ed irrigidito, e perciò è portatore oggettivo di una visione straniante, non avrebbe più ragione d’essere, nella Coscienza, la presenza di un narratore esterno al narrato, implacabile bel giudicare ogni gesto e ogni parola del personaggio. Ma neppure, nel romanzo, sarebbe pensabile un giudizio in relazione ad un punto di riferimento fisso, come è quello del narratore eterodiegetico, dinanzi ad un’entità mobile, in divenire, contradditoria e inafferrabile come è l’inetto-abbozzo. Dinanzi ad una realtà totalmente aperta e ambigua, in cui forza e debolezza, salute e malattia, verità e menzogna, chiaroveggenza e cecità sono sconvolte nelle loro gerarchie abituali, non si possono più dare punti di riferimento stabiliti, non è possibile l’intervento di un voce che giudichi in nome di valori certi e determinati. Per questo, abbandonato in narratore fuori campo, la narrazione viene affidata alla voce del personaggio. Filtrato attraverso la sua voce ambigua, tutto il testo diviene ambiguo, aperto, passibile di varie interpretazioni. Ciò che dice Zeno può essere verità o bugia, o tutt’e due le cose insieme, e nessun punto di riferimento permette di distinguerlo con definitiva certezza.



Proust



Eco della filosofia di Bergson, il tema del tempo e della memoria è centrale nell’opera proustiana. La memoria consente di recuperare il passato, altrimenti condannato a una inesorabile consumazione, e contribuisce a strutturare l’identità dell’io e della coscienza, in un tempo in cui cadono i valori della tradizione e della società. Oltre alla memoria volontaria Proust sottolinea l’importanza della memoria involontaria, che appare improvvisamente, con le “intermittenze del cuore”, come un’illuminazione, e colpisce la sfera inconscia e le sue profonde pulsioni, rendendo vivo il passato. La restituzione del passato raggiunge la perfezione attraverso la parola e l’arte, capace di fissare fuori dal tempo le diverse sensazioni. L’arte, in assenza di altri valori, è l’unica possibilità di salvezza per l’uomo, condannato alla solitudine e alla perdita. Nella Recherche Proust dipinge crudamente una vasta gamma di ambienti sociali e di personaggi, indugiando su aspetti sgradevoli, secondo il taglio snobistico e maniacale della prospettiva del narratore. Nella filosofia di Proust anche l’amore, nonostante un’ampia gamma di manifestazioni, non riesce a vincere la spinta verso la prevaricazione egoistica, che lo degrada a una forma di possesso. La sottigliezza dell’analisi non indebolisce l’ordine e la coesione dell’insieme, che l’autore stesso paragona ad una cattedrale “meravigliosamente disposta a più livelli fino all’apoteosi finale”. La Recherche è stata paragonata a una sinfonia dominata da grandi temi (l’amore, la gelosia, la morte, la memoria, il tempo) che si intrecciano, si allontanano e si fondono in una magistrale orchestrazione. Per la visione problematica e relativistica della realtà che ne scaturisce, l’opera di Proust è stata recentemente accostata alla teoria einsteniana della relatività. Piano della Recherche è la trasformazione dei ricordi e la loro utilizzazione. Proust ha capito che la vita non la si comprende nel momento in cui la si vive, mentre il ricordo, filtrato dalla meditazione, fors’anche dalla contemplazione, diventa la ricreazione di un passato ancora tutto da vivere. Il tempo perduto rimane in noi con un senso di sofferenza. Ma l'opera di recupero sfocia nel trionfo per il tempo riconquistato e la vita che pareva sfuggire col tempo e nel tempo trova concretezza vera nel profondo. Secondo Proust, l’universo tutto aspira a entrare in contatto con noi e la realtà sua va penetrata. Proust non si chiede, come i simbolisti, che cosa vogliano significare le cose, ma che cosa c’è dentro di esse. La cosa non si nasconde, ma si offre, come tutto ciò che è del creato. Sta all’uomo recuperare nel tempo ciò che l’inesperienza e la rapidità dell’ora fuggente non gli lasciano capire. Proust non procede mai in linea retta nella narrazione. La sua pagina è come un vortice in cui è facile smarrirsi, giacché quando si crede di essere arrivati al fondo ci si ritrova alla superficie, in cerchi più ampi, con orizzonti aperti, da dove si è poi costretti a guardare il nucleo della cosa, ove si è fatalmente destinati a rientrare. L’io del creato si impadronisce degli eventi, li filtra nella memoria ove si incontrano col “flusso di coscienza” che unisce alla realtà delle cose quella delle sensazioni, in un’apertura interpretativa multipla che ricrea personaggi e cose affidandoli e riaffidandoli alla vita interiore sia dell’autore sia del lettore. Per questo personaggi come Swann, Odette, Robert de Saint-Loup, Albertine, Bergotte, la duchessa di Guermantes diventano i compagni di strada di chi nella Recherche riscopre la vita. L’importanza dell’opera di Proust non va cercata tanto nella descrizione dei mutamenti della società francese, quanto nello sviluppo psicologico dei personaggi e nella filosofia che sottende il rivoluzionario impiego delle categorie temporali. Tracciando il percorso del protagonista dalla felicità dell’infanzia alla presa di coscienza sulla sua vocazione letteraria, Proust è alla ricerca di verità eterne, dei ricordi sepolti che possono essere riportati alla luce dalle esperienze quotidiane, della bellezza della vita cui si può talvolta accedere attraverso l’arte, che è in grado di riaprirci gli occhi accecati dalla consuetudine. La dimensione temporale è interpretata da Proust alla luce delle teorie bergsoniane come flusso costante, come coesistenza, con pari grado di realtà, di passato e di presente. Audace risulta inoltre l’esplorazione degli abissi della psiche umana, delle motivazioni del subconscio e dell'irrazionalità dei comportamenti individuali. A’ la recherche du temps perdu Pubblicata tra il 1913 e il 1927 in sette parti: ? Du cotè de chez Swann (1913) ? A’ l’ombre des jeunes filles en fleurs (1919) ? Le cotè de Guermantes (1920-1921) ? Sodome et Gomorrhe (1922) ? La prisonnière (1923 postumo) ? Albertine disparue (1925 postumo) ? Le temps retrouvé (1927 postumo) Nella “Commemorazione di Proust” dei Saggi critici Giacomo Debenedetti afferma che lo scrittore non ha fatto altro che confessare nel suo capolavoro il decorso della sua vita: infatti egli è un uomo che prima ha perduto il suo tempo, poi si è applicato a recuperare quel tempo perduto “col tesserne la rapsodia struggente, coll’estrarne la veritiera e sensitiva poesia, coll’interrogare la propria musa, che, come le Muse sorelle, è, dicono, figlia della memoria”. Certo è che la vita di Proust è nettamente divisa in due distinte epoche. Fin verso i trentacinque anni, cioè fin verso il 1907, egli si dedicò alla “più voluttuosa e dilettosa, alla più conversevole e scapricciata vita dei salotti e del bel mondo”. Le sue prove di scrittore erano quantomai saltuarie e discontinue e così quando , ventiquattrenne, nel 1896, raccolse in un volume i suoi sparsi tentativi di scrittore, descrizioni di ambienti mondani, frammenti di racconti, liriche di argomento pittorico e musicale, il suo libretto, che delicatamente si intitolava Les plaisirs et les jours, non ebbe che una vaga risonanza tra i conoscenti e gli amici. Questa fu l’epoca del tempo perduto.Ed ecco che, ad un certo momento, egli si rinchiude, parte alla ricerca di quel tempo perduto. Diventa quale Paul Morand l’ha celebrato in un’ode: ”l’ombra nata dal fumo delle sue fumigazioni, con il volto e la voce divorati dalla corrosione notturna”. La vita, questa dolce e peregrina assente che ha chiusa fuori dalla sua stanza, gli rifluisce, vestita di musica e di miracolo, sulla pagina. Egli non si mostra più nel mondo: dorme di giorno, perché crede che la notte sia più benigna al suo male. Pare che, nei primi tempi, il suo lavoro non sia stato altro che una sorta di compilazione ispirata, lo strumento di cui si è valso per riconquistare il tempo perduto. C’è, dunque, nel titolo del romanzo proustiano, una sottile insidia che lo fa scambiare per un’autobiografia più o (segue nel file da scaricare qui)
 
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